Ci fu un periodo in cui, nei campi in terra rossa della nostra Virtus, i grandi campioni del tennis italiano si “davano battaglia”.

Erano tutti i “prima categoria” e i più bravi della “seconda”.

Le occasioni furono la coppa Brian (1965-67-69) e il Campionato Italiano (1970).

Era uno spettacolo vedere giocare i più “bravi” del tennis; erano anche i tempi in cui Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci “sgomitavano” faticosamente ma alacremente per poter battere i “seniores” cioè Gardini, Sirola, Pietrangeli, Merlo e gli altri.

C’era proprio da divertirsi.

Mi vengono in mente alcuni di questi personaggi.

Rivedo Fausto Gardini e la sua estrema magrezza, aveva le guance scavate come un fuoriuscito da un campo di sterminio dopo la guerra, vederlo poi negli spogliatoi, alto com’era c’era da spaventarsi; fra l’altro rideva poco e brontolava spesso, pareva un po’ uno “zombie”, tutto il contrario di Sergio Tacchini che cercava di contendere a Nicola Pietrangeli la palma d’oro del più gettonato campione di tennis da parte del pubblico femminile.

Ovviamente non ci riusciva.

Tacchini tuttavia dimostrò una straordinaria capacità manageriale e fu il primo e forse l’unico tra i campioni a trovare un grande ”business” nel vendere completi da tennis con il suo marchio.

Roba da altri tempi.

Orlando Sirola (il nostro caro Orlandone) quando lo vedevi giocare, da lontano, sembrava impugnasse una racchettina da bambino; non avendo riferimenti immediati sembrava lui il normale e la racchetta una “mignon” (quelle che usano i bambini). Quando presi in mano, per curiosità, una sua racchetta, constatai che lo spessore del manico (le racchette erano ancora di legno e di misura unica) era almeno il doppio di quello normale.

Chi si ricorda quando Orlando chiedeva a Lele di allenarlo? (Questo in genere avveniva alle 18 sul campo 3 quando Lele aveva 10 ore e passo di lezioni alle spalle!).

E forse per provocarlo (era anche un po’ “sornione”) o forse per allenarsi veramente diceva forte:

“Lele, provo la prima!”.

All’arrivo della bordata che viaggiava a più di 180 chilometri all’ora e che dopo il rimbalzo si impennava di più di due metri Lele contrapponeva la sua non modesta apertura “alare” in quanto tentava di anticipare la risposta. Considerata l’altezza di Orlando, la velocità e la potenza della palla di battuta, Lele, anche solo per anticipare la risposta, si doveva letteralmente schiacciare contro la siepe di fondo campo (tre metri e passa dalla riga di fondo campo).

Giocavano per il tempo di un set; Orlando si scaldava un po’ per il match che lo aspettava il giorno dopo, Lele bisognava adagiarlo sulla panchina e portarlo – a braccetto – negli spogliatoi.

Capitò in quelle occasioni un “desaparecido” del tennis, aveva una barba piuttosto lunga, ispida e nera, portava come copricapo un fazzoletto annodato nei bordi e un po’ allungato sul collo; ai fianchi, arrotolato nei calzoncini, indossava, o meglio si infilava, un asciugamano (il tutto era – a parte la barba – bianco candido, come del resto doveva essere allora, rigorosamente, la divisa dei tennisti).

Si chiamava Bologna, era un maratoneta prestato al tennis; era arrivato a essere prima categoria sfinendo per fatica tutti i suoi avversari non sbagliando, lui, mai, in quanto non scendeva a rete.

Per lui il campo da tennis finiva con la riga del quadrato della risposta di battuta, dopo, come dicevano i romani “hic sunt leones”.

Il caso volle (….. ma prima o poi doveva succedere) che ai Campionati Italiani negli ottavi dovesse affrontare un ragazzino di belle speranze che di nome faceva Corrado e di cognome Barazzutti – anni diciotto – appena arrivato in prima categoria con risultati eccellenti; anche lui nemico giurato delle “voleè” e della battuta “serve and volley”.

Giocarono sei ore senza interruzione se non per i cambi di campo. Bologna si asciugava continuamente il sudore con l’asciugamano che teneva calato sulle gambe fin sotto al ginocchio.

Barazzutti si dava la spinta parlando fra sé e sé e sfruttando quelle gambe micidiali che lo portarono poi ai vertici del tennis nazionale e mondiale senza potere contare sulla chiusura del gioco a rete.

Fu un match memorabile, vinse Barazzutti al quinto; Bologna da quel giorno appese la racchetta al chiodo; non lo videro più ai tornei di tennis; forse si iscrisse alle maratone nel deserto.

Ancora mi viene in mente Martin Mulligan, l’australiano naturalizzato italiano, grande campione di tennis.

Aveva un tic nervoso sui muscoli del viso che li faceva contrarre in modo tale da sembrare che ridesse come il Jocker di Batman (avete presente l’eccezionale interpretazione di Jack Nicholson? Uguale!).vQuesto avveniva però solo quando si concentrava molto e cioè quando, nel match, era di risposta; Adriano Panatta nella finale di coppa Brian del 1969 al terzo game perso consecutivo lo affrontò in mezzo al campo e gli chiese con i dovuti modi (tipici suoi) cosa cavolo (ma non disse così) avesse da ridere; se il fatto che Adriano fosse sotto lo facesse tanto ridere (Adriano era un grande amico di tutti fuori dal campo, anche un burlone, ma dentro…vun po’ meno).

Mulligan non capì a cosa si riferisse Adriano e gli disse di stare calmo che (lui) non stava facendo niente, soprattutto ridere.

Questo ovviamente calmò molto Adriano che continuò il suo rosario di imprecazioni sussurrate (ovviamente… secondo lui).

Tuttavia vinse.

E si rabbonì.

Per finire non potrebbe mancare a questa limitatissima carrellata (a cui si dovrebbero aggiungere “Cimmo” Caimo, Noè e altri ancora) il sempre, da noi virtussini amato Beppe Merlo.

Il suo tennis chi non lo ha visto non può immaginarselo; tutto il contrario del normale: palle lentissime, impugnatura della racchetta in posizioni assurde, primo in assoluto a giocare il rovescio a due mani, sbalordiva con le sue battute; erano “monche” di tutto il passaggio della racchetta dietro e sopra alle spalle; non esisteva la cosiddetta preparazione al colpo.

Tic, ed ecco la palla andare verso l’angolo più lontano del quadrato di risposta, dotata di un effetto tale che dopo il rimbalzo non si sollevava più da terra; giocava così entrambe le battute, chi avesse voluto approfittarne per scendere a rete era assolutamente impossibilitato.

Di grazia ribatterla, la pallina della battuta, che poi veniva dallo steso Merlo rigiocata nell’angolo esattamente opposto del campo.

Lui correva trasversalmente un metro al di sopra della linea di fondo e da lì governava il gioco.

Anche per lui la discesa a rete era l’aspetto assurdo del tennis.

Ai Campionati Italiani (1970) giocò uno dei suoi ultimi memorabili tornei capitolando contro quel Barazzutti che l’aveva spuntata contro Bologna.

Tentò anche qualche piccolo stratagemma come quello di farsi mettere nel tabellone alle 17,30 e quindi di chiedere la sospensione per buio alle 20.

Alla ripresa, la mattina dopo, le energie giovanili di Barazzutti prevalsero sul tennis del nostro Beppe Merlo.

All’uscita dal campo tuttavia uno scroscio di applausi dei suoi virtussini lo consolò della sconfitta.

Non un solo applauso a Barazzutti.

Che se la legò al dito e non venne più a giocare alla Virtus.

Andrea VILLA